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Con l'acqua alla gola

La guerra per l’acqua non è più solo futuro lontano. Una crisi idrica mondiale non risparmierebbe nessuno

Ogni anno a Davos, in Svizzera, si riuniscono i leader politici e i maggiori economisti del mondo per discutere degli impellenti problemi internazionali e influenzare le agende dell’industria a livello globale, nazionale, regionale.

Nel 2015 la grande questione posta ai protagonisti del World Economic Forum è stata: “Quale sarà il pericolo più grave dei prossimi dieci anni?” La scelta poteva ricadere su diverse catastrofiche opzioni: la guerra, le armi di distruzione di massa, le epidemie globali, il terrorismo etc. Invece no, la risposta unanime è stata: la crisi idrica.

Di fatto, solo il 2,5% dell’acqua del pianeta è dolce e, per di più, viene sprecato, inquinato e maldistribuito. Nel frattempo rispetto a 70 anni fa la popolazione mondiale è quasi quadruplicata e il consumo di acqua è aumentato di sei volte.

Le persone che si alzano la mattina senza sapere se durante la giornata potranno bere un bicchiere d’acqua non contaminata sono quasi un miliardo e altri 2,3 miliardi di persone soffrono la sete a causa della penuria di risorse idriche. Questi dati, perlopiù letti distrattamente, si accompagnano di frequente al preconcetto che certi problemi non ci riguardino, se non marginalmente. Dopotutto perché allarmarsi? Se vado in cucina e apro il rubinetto presumibilmente non avrò brutte sorprese.

Eppure le cose cambiano in fretta, i media cominciano a indagare lo stato dell’attuale crisi idrica e sorprendentemente non si parla dei soliti noti; sono Brasile, California, Spagna e Israele i nuovi protagonisti.

Brasile

Nel 2015 in Brasile la stagione delle piogge non c’è stata. Il sud-est del Paese è afflitto dalla più grande siccità degli ultimi ottant’anni e nei quartieri di São Paulo situati più in alto l’acqua manca spesso per intere giornate.

I politici si lamentano del cambiamento climatico e imputano tutto alla scarsità di piogge degli ultimi anni, ma di fatto il problema è un altro: i brasiliani, ma il discorso potrebbe essere esteso a tutti, non hanno la percezione reale del problema, vivono come se l’acqua fosse un bene garantito per sempre da una sorta di contratto con il mondo, stipulato all’origine dei tempi.

Ebbene, l’acqua è una materia prima esauribile ed è anche l’unica che garantisce la vita. L’attitudine di chi costruisce dighe superflue, raddrizza corsi d’acqua, inquina bacini idrici con scarti industriali e lava marciapiedi con acqua potabile non è solo imprudenza, si tratta di scelleratezza.

L’accesso all’acqua è stato recentemente incluso dalle Nazioni Unite tra i diritti fondamentali dell’uomo quindi negarlo potrebbe essere considerato un crimine contro l’umanità al pari di un attacco terroristico. Tuttavia non è così e per giunta l’obiettivo ONU di dimezzare entro il 2015 il numero delle persone che non hanno accesso all’acqua è fallito miseramente.

Spagna

Secondo diversi studiosi il sud della Spagna si trasformerà in una zona desertica entro metà secolo. Il Paese è tra i più colpiti dal cambiamento climatico, ma la gestione delle risorse idriche è decisamente esecrabile. In Andalusia, dove si coltivano quasi tutte le fragole prodotte in Spagna, si consumano ogni anno più di 20 milioni di metri cubi d’acqua.

Molti dei terreni sono irrigati illegalmente tramite pozzi abusivi e le autorità non fanno nulla per disincentivare questa pratica. Il dato scioccante è che l’agricoltura assorbe il 70% dell’acqua consumata nel mondo e viene gestita secondo piani legislativi che perdono di vista il medio-lungo termine, contribuendo a sostenere il depauperamento di zone del pianeta che non torneranno più come prima.

Stati Uniti

Strade dissestate, case senz’acqua, pozzi prosciugati. Non si tratta di un paese in via di sviluppo, ma della grassa California, la stessa degli sfarzi di Los Angeles, della contea delle arance, della Silicon Valley e del sogno americano abbronzato.

La Central Valley con i suoi frutteti e orti è il fiore all’occhiello di questo gigante da 46 milioni di dollari, ma negli ultimi anni le temperature stanno aumentando molto più rapidamente della media mondiale a causa di un disequilibrio del sistema idrico. Succede quindi che la politica agricola di molte zone aride della California da ormai quattro anni è spinta all’estremo.

La preoccupazione nei confronti della crisi è, come nella migliore tradizione americana, direttamente proporzionale alla varietà degli sforzi tesi ad arginarla: spopolano le campagne per nuove tecnologie di desalinizzazione dell’acqua, si cercano nuove modalità di raffreddamento per le 800 computer farm di Google e Netflix che da sole consumano l’equivalente di 158.000 piscine olimpioniche l’anno. Infine mentre alcuni pensano di trascinare iceberg dall’Alaska, prende piede la figura del “water lawyer” specializzato nelle cause sull’acqua.

Israele

Non tutti sanno che l’acqua è uno dei fattori principali dell’eterno conflitto arabo-israeliano. È dalla guerra del 1948 che Israele cerca di imporre il proprio controllo sulle acque della regione, che dovrebbero essere equamente spartite tra israeliani e palestinesi.

Nel rapporto pubblicato dalla Banca Mondiale nel 2008 emerge che, sebbene l’acqua nella terra di Israele sia scarsa, ce ne sarebbe abbastanza per entrambi i popoli qualora i palestinesi vedessero formalmente garantiti i loro diritti su queste risorse, che sono obbligati a dividere con Israele. Nonostante gli accordi di Oslo del 1995, oggigiorno la quantità di acqua consumata da Israele è quattro volte superiore a quella utilizzata dai palestinesi.

Nel frattempo il sogno israeliano di “far fiorire il deserto” viene portato avanti dall’impianto di desalinizzazione più grande al mondo, quello di Sorek. Da qui proviene il 20% di tutta l’acqua pubblica israeliana, ma il processo richiede il 10% della corrente elettrica prodotta nel Paese, una quota alta visto che Israele non utilizza energie rinnovabili.

Così, da un lato il paese strizza l’occhio all’America, famelica di nuove tecnologie in grado di attenuare la crisi idrica, ma dall’altro non si assume la responsabilità umana, prima che politica, di tutelare il diritto imprescindibile di tutti di avere accesso all’acqua.

Sembra quindi evidente che anche la privatizzazione dei rifornimenti idrici non sia la soluzione al problema, visto che il semplice buon senso viene spesso surclassato dalle più spietate logiche economiche.

Occorrerebbe forse rivedere “Bottled Life”, documentario del 2012 che denuncia il business dell’acqua della Nestlé, per rendersi conto di quanto la battaglia per l’acqua, nonostante non occupi le colonne dei giornali e non infervori gli ambientalisti come il consumo di petrolio, sia in realtà più sottile, spregiudicata ed essenziale.

Forse a un certo punto saremo obbligati a lasciare l’auto nel garage, ma cosa succederà quando sarà il nostro carburante vitale a mancare?

 

Mara D’Arcangelo

Ottobre 2015

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