Le contraddizioni di un lungo percorso di cambiamento
Il comparto tessile e della moda, che per l’Unione Europea rappresenta il quarto settore più inquinante a causa dell’uso di materie prime essenziali e di acqua, è ritenuto uno dei settori industriali fondamentali nella svolta verso l’economia circolare a causa del suo significativo impatto ambientale.
Negli ultimi anni anche tra i consumatori stiamo assistendo ad un aumento di sensibilità e consapevolezza sull’argomento: conosciamo i “numeri” che stanno dietro l’acquisto di un capo a basso prezzo, sia in termini di consumo di risorse, sia in termini etici di sfruttamento del lavoro e molte testimonianze sono disponibili online, come ad esempio la serie di video “Junk – Armadi pieni” disponibile su Youtube.
Ma tutto questo ci porta a modificare davvero il nostro approccio nell’acquisto degli abiti? Negli ultimi 20 anni la produzione di vestiti è raddoppiata: 100 miliardi di capi nel 2022 e si prevede che raggiungerà i 200 miliardi di capi nel 2030. L’aspetto critico è proprio la mancanza di sostenibilità nella produzione intensiva: dal consumo di acqua all’inquinamento con oltre 3.500 sostanze chimiche.
L’industria della moda ogni anno utilizza 93 miliardi di metri cubi d’acqua ed è responsabile di una quota significativa di emissioni di gas serra, stimate tra l’8 e il 10% del totale a livello mondiale.
Nell'industria del fast fashion trascorrono appena 15 giorni dal bozzetto dello stilista al capo di abbigliamento in stock, acquistabile online o in tutti i negozi del mondo, un mercato che negli ultimi 20 anni ha raddoppiato la produzione e moltiplicato le collezioni, per un valore di oltre 120 miliardi di dollari a livello globale. Entro il 2027 dovrebbe addirittura superare i 184 miliardi di dollari.
Dopo la pandemia, lo shopping online ha fatto schizzare le vendite, mentre a diminuire è solo il ciclo di vita degli indumenti: si gettano via i vestiti dopo averli indossati appena una manciata di volte. Sebbene l’attuale industria debba fare i conti con una crescente consapevolezza in termini di sostenibilità, lo stato di salute della moda veloce è ancora robusto. Si stima che ogni anno vengano prodotti tra gli 80 e i 100 miliardi di nuovi capi, circa 14 per ogni persona sulla Terra, i quali per la maggior parte sono destinati a cicli di vita sempre più brevi. Nell’Unione Europea, secondo i dati dalla Commissione vengono generati 5,2 milioni di tonnellate di rifiuti in abbigliamento e calzature all’anno, pari a 12 kg per ogni cittadino.
Il risultato è che ogni secondo un camion di vestiti viene svuotato in una discarica, spesso dall’altra parte del mondo: a portare il peso di gran parte dei rifiuti tessili sono luoghi come il deserto di Atacama nel nord del Cile o le nazioni africane del Ghana e del Kenya.
Nella discarica a cielo aperto sudamericana si troverebbero circa 741 acri di magliette, camicie, jeans e indumenti usati, ma anche nuovi, spesso eccedenze invendute.
Green Deal Verso un cambiamento di rotta
Il 2023 è stato l’anno in cui le istituzioni governative sono finalmente scese in campo per cercare di invertire la rotta della moda e arginare le conseguenze di fast fashion, greenwashing e sprechi tessili attraverso una legislazione ad hoc che impone alle aziende maggior chiarezza e presa in carico dello smaltimento dei rifiuti. L’Unione Europea con il Green Deal ha proposto un piano per realizzare un modello di crescita efficiente e sostenibile per affrontare i cambiamenti climatici e proteggere l’ambiente. Nel campo della moda l’accordo sulla Responsabilizzazione dei consumatori per la transizione verde è stato approvato dal Consiglio e Parlamento Europeo a settembre 2023.
L’obiettivo è quello di realizzare un’economia circolare attraverso quattro ambiti di intervento:
- Ecodesign: la direttiva stabilisce requisiti minimi (sostenibilità, materiali, riciclabilità, durata nel tempo, riparabilità, riutilizzo) che i produttori devono rispettare per accedere al mercato europeo.
- Tracciabilità e trasparenza della filiera: i produttori dovranno fornire informazioni dettagliate sulla provenienza delle materie prime, sulle condizioni di lavoro nella catena di produzione e sull’impatto ambientale complessivo del ciclo di vita del prodotto.
- Responsabilità estesa del produttore (EPR): impone ai produttori di gestire i rifiuti in modo sostenibile implementando per esempio i programmi di raccolta differenziata, collaborando con organizzazioni di riciclaggio specializzate, promuovendo design ecocompatibili.
- Commercio dei prodotti: i produttori che rispettano normative di sostenibilità lungo l’intera filiera produttiva saranno promossi attraverso gli accordi commerciali Ue.
Abiti più duraturi, ma anche più facili da riutilizzare, riparare, riciclare e, infine, smaltire. E una produzione che rispetti diritti umani, sociali e del lavoro, così come l’ambiente e il benessere degli animali. Tutto entro il 2030. La strategia dell’Unione Europea per il tessile, abbraccia l’esigenza di un’industria più sostenibile e stabilisce una serie di obiettivi da raggiungere entro la fine del decennio.
Sensibilità e abitudini
Si parla tantissimo di sostenibilità, ma si fa un’enorme fatica a cambiare abitudini e ridimensionare i consumi di fronte ad un’enorme quantità di scelta, costi contenuti, accessibilità in qualunque luogo e momento, consegne velocissime e possibilità di reso pressoché infinita.
Nonostante sia palesemente dissonante il fatto che una maglietta costi meno di cappuccino e brioche e nonostante sia chiaro anche per i non addetti ai lavori il motivo per cui certi capi e oggetti costino così poco (materiali di dubbia qualità, produzioni dall’altro capo del mondo e lavoratori pagati sotto la soglia consentita, oltre che con meccanismi a ciclo continuo), non si riesce a farne a meno. E tutto quello che supera determinate soglie di prezzo viene etichettato come costoso.
Si sta vedendo una crescita significativa nella vendita di vintage e abiti di seconda mano, spesso incoraggiata dai brand di fast fashion stessi. Ma dall’ultimo report annuale di Wrap, una Ong votata alla causa climatica, si evince che gli apparenti risultati raggiunti dalle aziende firmatarie del piano d’azione britannico Textiles 2030 – tra cui giganti del fast fashion come H&M e Primark – sono praticamente vanificati dall’incessante ritmo produttivo.
Per quanto la Commissione Europea cerchi di porre un freno ai danni del fast fashion con le nuove regole imposte alle industrie, per quanto si possa professare lo shopping vintage come alternativa sostenibile, l’unica vera iniziativa sostenibile da parte delle aziende sarebbe – parlando di quantità - produrre (molto) meno e, da parte dei consumatori, comprare (molto) meno. Alla fine è sempre la sensibilità dei consumatori a spingere le aziende a modificare i modelli di produzione. Più sono consapevoli e più difficile diventa il greenwashing.
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I colossi Shein e Temu si sfidano sui tempi di consegna con spedizioni quotidiane che ormai superano 9mila tonnellate. Il fast fashion sottrae spazi crescenti in stiva in un periodo in cui la crisi nel Mar Rosso spinge molti settori a ripensare la logistica.
Se qualche anno fa un ordine su un sito di eCommerce cinese poteva richiedere anche un paio di mesi prima di arrivare all’indirizzo di un qualsiasi utente europeo, oggi lo scenario è cambiato e una magliettina da una manciata di euro arriva in pochissimi giorni. Perché oggi Shein, TikTok Shop e Temu spediscono la maggior parte dei loro prodotti direttamente dalle fabbriche in Cina agli acquirenti via aerea, in pacchetti indirizzati individualmente. (Il Sole 24 ore)
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Sfruttamento
Centinaia di fabbriche di abbigliamento in Bangladesh hanno chiuso a causa delle violente proteste di migliaia di lavoratori dell’industria tessile, che hanno causato la morte di due persone.
I lavoratori, che manifestano da giorni, chiedono che il loro salario minimo mensile sia triplicato.
“Produciamo vestiti costosi, che vengono venduti a prezzi alti all’estero” dai proprietari delle fabbriche, che “guadagnano un sacco di soldi”. “Perché non possono pagarci meglio?”, chiede Nasima, un’operaia di 30 anni.
Dieci anni dopo la tragedia del Rana Plaza, una fabbrica tessile crollata a Dhaka nel 2013, uccidendo più di 1.100 lavoratori, i salari e la sicurezza sono stati migliorati nel settore che si è ampiamente sindacalizzato, ma i progressi sono insufficienti. Il 2 novembre, oltre alle fabbriche manifatturiere, diverse migliaia di lavoratori hanno bloccato anche le strade nei distretti industriali intorno a Dhaka. (Internazionale - Afp, 2 novembre 2023)
Ultime (buone) notizie
L’hub gestirà la fase finale del ciclo di vita di indumenti e prodotti tessili usati: abiti, scarpe, borse conferiti nei cassonetti o provenienti da aziende d’abbigliamento, tra cui anche marchi d’alta moda, come capi resi, invenduti o difettosi.
Ci saranno anche rifiuti pre-consumer, ossia filati, tessuti da scarti di lavorazione (cascami). Infine, il riciclo: i tessili vengono selezionati per fibra, qualità e colore. Vengono eliminate le parti non riciclabili: bottoni, cerniere, elementi in plastica o qualsiasi altro elemento che possa compromettere la successiva fase di riciclo.
Il nuovo polo tessile di Rho – secondo quanto comunicato da Vesti Solidale – sarà il centro nevralgico dell’attività di raccolta dei cassonetti gialli riconoscibili dai marchi di Caritas e Rete RIUSE (Raccolta Indumenti Usati Solidale e Etica) nei territori delle Diocesi di Milano, Brescia e Bergamo, tramite 9 cooperative sociali, tra cui la Cooperativa Ruah di Bergamo.
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A Bergamo il 5 maggio
Vi si troveranno capi realizzati utilizzando fibre naturali e filati certificati, con particolare attenzione alla filiera corta e al riuso, laboratori e attività creative, incontri di approfondimento con realtà del territorio a confronto sui temi del tessile, progetti sociali, hobbisti e creativi.
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Progetto SLOW FIBER
In Italia il progetto Slow Fiber, nato nel novembre 2022, sta creando un modello di produzione sostenibile ed etico lungo l’intera filiera.
Le aziende che aderiscono devono rispondere ai principi ESG e prevedere audit e verifiche.
Ad oggi le aziende che già soddisfano i requisiti richiesti sono una ventina: Oscalito l’Opificio, Quagliotti, Remmert, Pettinatura Di Verrone, Tintoria 2000, Angelo Vasino Spa, Olcese Ferrari, FelliColor, Manifattura Tessile Di Nole, Holding Moda, Lanecardate, Italfil, Pattern, Maglificio Maggia, Vitale Barberis Canonico, Gruppo Albini, Botto Giuseppe, Cangioli 1859, Finissaggio e Tintoria Ferraris.
Tutte sono in grado di tracciare interamente la filiera tessile (o la maggior parte di essa) e possiedono le principali certificazioni quali OEKO-TEX, RWS, FSC, GRS, GOTS Global Organic Textile, ZDHC.
Ovviamente i prezzi sono un po’ più alti, ma il prodotto è di qualità migliore, ha una maggiore durata e per l’acquirente è già un vantaggio meno illusorio di avere un capo in più usa e getta; inoltre i lavoratori sono tutelati e i processi produttivi meno impattanti.