Piccole Ariel crescono: l’evoluzione del modello femminile raccontato dalle fiabe e dai cartoni animati
Il mese di marzo è arrivato: i colori cambiano e l’aria si fa frizzantina. Solleticati da questo risveglio sensoriale ci troviamo ancora a parlare di donne, nel mese a loro dedicato. Certo non serve aspettare marzo, di loro infatti non si finisce mai di parlare: lodate, disprezzate, decantate e criticate. Tanto si è parlato ma ben poco si è detto, perché da tutto questo parlare non emerge altro che un’avvilente verità: la donna è priva di un’identità propria. C’è sempre un modello al quale appartenere, un ruolo da interpretare, musa o demonio, devota o ribelle, sempre a confronto… sempre e solo la “dannata” costola di Adamo!
Da tempo immemore la donna lotta e combatte per affermare la propria identità. Eppure oggi il frutto di tante lotte e rivendicazioni, la Festa della Donna, è priva d’identità. L’interpretazione più diffusa sulla nascita di tale ricorrenza riporta al grave incendio della camiceria di New York nel 1908, altre si rifanno agli scioperi e alle manifestazioni avvenute in quel particolare mese di marzo. Ma si festeggia la memoria delle operaie morte a New York o delle femministe che hanno combattuto per quei diritti che ancora oggi appaiono privilegi? O per le donne che quotidianamente lottano per dimostrare quanto valgono? Questi sono tutti validissimi motivi ma la realtà è che non vogliamo una giornata per complimentarci tra noi: la Festa della Donna dovrebbe ricordare che nonostante tutti i cliché, le poesie e le canzoni scontate, le donne lottano, lavorano e muoiono come gli uomini e vogliono solo che venga loro riconosciuta la dignità di donna in quanto essere umano, diverso dall’uomo ma non per questo migliore o peggiore.
Siamo tutte principesse?
La grande fatica dell’essere donna infatti è lo smarcarsi dai modelli imposti: il problema è che ormai sono talmente insiti nella società che andrebbero rivisti persino nelle loro forme più innocenti. Pensiamo per esempio alle fiabe, che sono i primi modelli di organizzazione sociale con i quali ci confrontiamo, e nello specifico a quelle proposte in tv: i cartoni animati. La prima cosa che ogni fiaba insegna è che il principe azzurro prima o poi arriverà a salvare la sua principessa, la porterà all’altare e “vissero tutti felici e contenti”. Fondamentale è che la principessa in questione sia bellissima, educata e senza pretese; si è mai vista una Cenerentola grassa? Una Raperonzolo nevrotica? Una Biancaneve che vuole andare a lavorare? Impensabile! Ecco quindi il primo grande valore: l’estetica. Per analizzare il tema più a fondo sarà utile tracciare un profilo dettagliato, partendo da Biancaneve, il primo lungometraggio animato della storia.
Biancaneve è una fanciulla che non ha la minima coscienza dell’ingiustizia in cui vive: il ricco padre è morto e lei -la legittima ereditiera- si trova a fare la serva per la perfida matrigna, un’ambiziosa donna avida di potere e invidiosa della giovane bellezza di Biancaneve; ed è la bellezza la sua unica forza. Per tutta la durata della storia non c’è una sola volta in cui la bella principessa intervenga per se stessa: il cacciatore non le strappa il cuore perché incantato dalla sua innocenza -lei mica se n’era accorta, intenta com’era a cogliere i fiorellini; riesce a nascondersi perché i nani, trovandola così gentile e graziosa, la ospitano nella loro casa; viene poi risvegliata dall’incantesimo perché il principe prova l’irrefrenabile istinto di baciarla. La nostra eroina è pura, ma di una purezza che rasenta l’idiozia. La scena della mela ne è l’esempio più lampante: persino gli animali del bosco avevano capito le intenzioni della vecchina, ma per Biancaneve l’educazione prima di tutto e così -in barba alle raccomandazioni dei nani che non conoscono il bon ton- apre la porta e, dato che rifiutare è da maleducati, mangia la mela avvelenata.
Biancaneve è il primo modello, ma nemmeno le successive Cenerentola e Bella Addormentata brillano per arguzia o intraprendenza. Nelle prime immagini di donna, infatti, i caratteri generali sono comuni a tutte: non vi è curiosità in loro, nessuna aspirazione, nessuno stimolo a pensare che forse può esserci di più, l’unico sogno è l’amore di un principe coraggioso che le porti via con sé, ed è interessante osservare come nemmeno il principe venga scelto: il primo che incontrano è sempre perfetto. Sono così le donne? Così si vive per sempre felici e contente? I personaggi femminili astuti, che vogliono solo il meglio per sé e lottano per averlo, invece, appartengono al modello strega cattiva che pagherà caro per aver provato a costruirsi un futuro migliore.
Pensando agli anni in cui questi cartoni sono stati diffusi notiamo come non facciano altro che fotografare la società: diverse infatti sono le eroine venute dopo gli anni ‘70 e le lotte femministe. La prima di queste è La Sirenetta, che fin dai primi minuti appare una ragazza estremamente curiosa, convinta che il mondo non finisca sotto il mare come il padre impone, ribelle e quasi ossessionata dalla voglia di scoprire nuovi luoghi e culture. Certo sarà questa sua sete di conoscenza a metterla nei guai ma, a differenza delle antenate, Ariel si scontra e confronta con la tradizione – interpretata dal padre – e alla fine trova la sua strada con la benevolenza di quest’ultimo. Ariel insegna a seguire i propri sogni rispettando i valori come la famiglia e l’amicizia. Anche il principe azzurro assume nuovi tratti: non più intrepido condottiero ma ragazzo ingenuo e un po’ succube dei giochi femminili tra Ariel e Ursula.
Quest’analisi estesa ad altri campi aumenta molto l’intensità del messaggio: possiamo quindi supporre che con un tale martellamento di stereotipi l’immaginario collettivo venga leggermente pilotato. Con dei modelli del genere, come può la donna non sentirsi naturalmente succube? E come può l’uomo non considerarla una creatura indifesa da proteggere o da punire, se necessario?
Nuove fiabe per un futuro al femminile
Fortunatamente i modelli si sono evoluti e con essi anche l’immagine della donna: è facile presumere che le future donne avranno -come Ariel- una maggiore consapevolezza di se stesse e delle proprie possibilità. E chissà quale sarà l’impatto sulla società. Appurato però che tv e società viaggiano di pari passo, riflettendosi l’una nell’altra, e molte sono le conquiste già fatte, perché il ruolo femminile in televisione continua a basarsi principalmente sull’apparire? E perché nella nostra società abbiamo bisogno di ritagliare spazi alle donne? Il fatto stesso di apprezzare che anche noi possiamo votare o che siamo in grado di ricoprire ruoli maschili sul lavoro ci pone su un gradino inferiore. Dopo tutte le lotte fatte scopriamo che ogni conquista non fa altro che allargare il nostro ghetto, migliorarlo, renderlo più abitabile forse, ma sempre ai margini, sempre parte e mai partecipi. La strada è lunga e ci vorrà tempo ma un cosa è certa: la Festa della Donna è legittima e sacrosanta, non perché ne abbiamo bisogno ma perché ce la meritiamo per il coraggio e la pazienza con la quale ogni giorno cerchiamo di vivere senza assomigliare in alcun modo agli uomini, perché la vera forza sta nella complementarità di due esseri diversi che, cooperando, traggono solo il meglio l’uno dall’altra.
Elisa Troiani