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Alfonsina Morini Strada. Una corsa per l’emancipazione

Alfonsina Morini Strada. Una corsa per l’emancipazione

La compagnia Luna e GNAC Teatro di Bergamo racconta la storia della prima e unica donna ad aver corso il Giro d’Italia

La maglia del vincitore era (ed è) rosa, eppure le donne al Giro d’Italia non partecipano. Ad eccezione di una, Alfonsina Morini Strada, che lo corse nel 1924. Nata nel 1891 a Castelfranco Emilia, cresciuta in un paese alle porte di Bologna in una famiglia povera e contadina, scoprì per la prima volta la bicicletta a 10 anni. E non poté più starle lontana. A togliere dalla «Pattumiera della Storia» la sua parabola, personale e professionale, è stata la compagnia Luna e GNAC Teatro di Bergamo, che dal 2017 la porta in scena in «Ruote rosa. Storia di Alfonsina Morini Strada, ciclista». Lo spettacolo, che vede sul palco Michele Eynard, Laura Mola e Federica Molteni (per la regia di Carmen Pellegrinelli), è stato scelto in autunno nell’ambito della «Settimana della Lingua Italiana nel Mondo» dal Consolato generale d'Italia a Nizza, in collaborazione con il Comitato per le Attività linguistiche e culturali italiane di Nizza, e reso disponibile su YouTube.

Una donna che scrisse il suo destino

A metà tra il fumetto, il teatro d'attore e quello d’ombra, la rappresentazione racconta, con poesia e ironia, il coraggio di una giovane atipica nell’Italia del primo ‘900. In un Paese ancora fortemente maschilista e in una società in cui le donne non potevano scegliere lavoro e marito, lei decise di inseguire il suo sogno: «Quando pedalo, sono il vento - dice alla sorella, in una scena -. Senza di me i grandi falchi non volano. Le nuvole stagnano. Le pozzanghere non si asciugano. Io trascino e porto via. E posso andare lontano, più lontano di chiunque altro al mondo. Devo solo spingere e pedalare. E allora nessuno mi può fermare».

Non la fermò la famiglia, che fin dal principio si oppose alla sua passione, non la fermò la fatica (tanto più perché un tempo le bici non erano come quelle di oggi: «La mia pesava come due carriole messe insieme», rivela al pubblico). Non la fermarono nemmeno coloro che la soprannominarono «Diavolo in gonnella» ed urlarono, nonostante le sue numerose vittorie, allo «scandalo». Solo perché, allora, le femmine non correvano in bici e non facevano sport a livello agonistico, non mostravano le gambe nude né indossavano una maglietta.

Nel 1915 sposò Luigi Strada, meccanico e cesellatore, che le regalò un cognome che sembrava già appartenere al suo destino e, al posto dell’anello, una bicicletta da corsa. Lui si ammalò, ma lei continuò a correre. Arrivò alla dodicesima edizione del Giro d’Italia. Era il 1924, i grandi campioni erano assenti, ma sulla linea di partenza, col numero 72, c’era lei.

Gli oltre 3 mila chilometri e le 12 tappe da Nord a Sud, la pioggia, il caldo, gli inconvenienti (nell’ottava tappa le si ruppe il manubrio che fu sostituito con il manico di una scopa) la sfinirono, ma arrivò ogni volta al traguardo. Ad attenderla c’erano i colleghi, i giornalisti e gli sportivi, perplessi, contrari (anche se alla fine tutti dovettero riconoscere la tenacia della ciclista emiliana). Ma soprattutto c’erano le donne, le madri, le mogli, le figlie. Perché Alfonsina indicò loro la Strada da percorrere.

In fondo, come conclude lo spettacolo, «quella corsa non era mai stata veramente e soltanto sua».

Michela Offredi

Febbraio 2021

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