Il recente libro di Elena Granata evidenzia come le donne abbiano sempre maturato un pensiero sulla città. E oggi più che mai è urgente adottarlo
L’ambiente che accoglie il paziente, le sedie dove aspetta il suo turno, il tono del personale, l’ambiente dove riceve le cure. E poi la luce, i suoni, la comodità, i sorrisi, gli scampoli di verde oltre le vetrate. Le diagnosi e i percorsi clinici possono essere gli stessi, difficili, difficilissimi, eppure molto fa quello che sta attorno. Basta una piccola comparazione (che si intuisce essere personale per l’autrice) fra alcuni ospedali coi relativi reparti oncologici, per trasmettere in modo chiaro, immediato e potente un’idea più vicina di architettura, più a portata di mano e mente. Ma è solo uno dei tanti tantissimi esempi che Elena Granata, professoressa di Urbanistica al Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano e vicepresidente della Scuola di Economia civile, riporta nel suo recente libro «Il senso delle donne per la città. Curiosità, ingegno, apertura» (Passaggi Einaudi), per aiutare il lettore a pensare a quanto lo spazio e l’organizzazione di questo influiscano sulle nostre vite, sul nostro benessere e malessere. E quanto questo sia connesso all’idea di cura, un compito storicamente assegnato alle donne che, in silenzio e spesso col capo chino, si sono adattate.
Non potendo occuparsi di altro, si sono prodigate nelle relazioni, nell’attenzione ai più fragili e negli ambienti che erano loro concessi. Con amore, impegno, spesso successo. Non potendo costruire, ad esempio, hanno scritto. «Di case, di città, di quartieri in trasformazione. Tenute lontane dall’architettura si sono dedicate alla fotografia, trovando mille modi per raccontare le persone e gli spazi della città. Escluse dalla pianificazione urbanistica si sono dedicate alla scala minuta, granulare, del design dell’abitare e della vita quotidiana, progettando spazi di prossimità e di benessere», scrive l’autrice. «Sono state - prosegue - piú giardiniere che progettiste, piú pedagogiste che ingegnere. Quando hanno potuto hanno generato pensiero e visioni lungimiranti, presto dimenticati; hanno osservato da vicino le città con il distacco che solo chi è escluso dai giochi può avere». Hanno sviluppato in forme varie, eclettiche e anche creative, un pensiero pratico sulla città che nel mondo attuale diventa importante, strategico.
La pandemia di Covid, la crisi energetica, quella ambientale, ma anche le trasformazioni sociali (a iniziare dall’invecchiamento della popolazione) e quotidiane (si pensi, ad esempio, al peso dello smart working) hanno fatto e fanno emergere visioni nuove degli spazi, delle città, che necessariamente non possono più essere quelle tipiche dell’uomo bianco, sano, occidentale che, esattamente come in tantissimi altri settori, era l’unico a esser presente, a decidere e progettare. Oggi come oggi, sono necessari ambienti più accessibili, più verdi, più a misura di uomo (inteso come essere umano), donna, bambino, anziano, giovane, a misura di fragilità e diversità.
Tante le azioni che si possono mettere in campo e che sono opposte alla logica costruttiva e consumistica che ha guidato il Novecento: proteggere i suoli e investire sulla rigenerazione urbana, aumentare le isole pedonali, le zone a traffico limitato, intervenire sulla riforestazione urbana. Ripensare il sistema del trasporto pubblico e della mobilità, incrementare le piste ciclabili, investire su nuove energie sostenibili e riprogettare il ciclo dei rifiuti. Ma anche sostenere gli interventi sul patrimonio edilizio esistente, in particolare su quello storico e di valore artistico. E soprattutto, suggerisce il libro, ridefinire il ruolo dell’architetto e delle architette, continuando a imparare dai luoghi, dal paesaggio esistente, dalla vita vera, in sintonia con Denise Scott Brown, architetta, urbanista, scrittrice e accademica americana, compagna di vita e lavoro di Robert Venturi. Lui vinse il premio Pritzker, lei è stata praticamente dimenticata. «Cara Denise Scoot Brown - scrive Granata - le cose non sono molto migliorate da allora, ma è davvero arrivato il momento di cambiare il gioco».
Michela Offredi