Tra marketing e realtà
Nel designarlo dimora dell’essere, Martin Heidegger invitava i suoi studiosi a trattare con smisurata reverenza il linguaggio: bistrattarlo equivarrebbe a vandalizzare le stesse mura domestiche che ci accolgono. Secondo il pensatore teutonico, la più grave forma di maltrattamento consiste in questo caso nel disattendere il potenziale veritativo della parola, il quale si esaudisce quando essa riesce a svelare la realtà della “cosa”, dell’altro fuori di me.
Per quanto un discorso goda di una seppur vasta libertà prospettica, dovuta al fatto che chi proferisce, chi parla non dispone di alcuna panoramica assoluta sul mondo, la lingua rimane ancorata a delle regole.
Esse delimitano il margine d’azione dell’individuo, costringendolo al confronto con dei referenti semantici stabili; nessuno dovrebbe potersi sottrarre ai significati, al netto dell’angolazione da cui si osserva un evento.
Piegare quest’ultimo alla volontà di potenza del parlante distorcendone gli esiti, trascende la zona franca del pluralismo o della democratica convivenza di opinioni e idee.
Ciò a sostenere che l’eccezionalità del daltonismo non va a modificare l’essenza del rosso, laddove a due diversi osservatori è però concesso di coglierne sfumature non perfettamente coincidenti.
Sotto la spessa epidermide delle interpretazioni insomma, l’osso del fatto permane.
Stante il regime relativistico a cui il presente ci sottopone attraverso la spettacolarizzazione mediatica del mondo, certe premesse non rischiano certo l’accusa di pedanteria ed è doveroso rimarcarle quando ci si trova a scrivere di comunicazione.
Trattare il tema della sostenibilità ambientale in relazione ai nostri stili di vita non sfugge alla rete di mistificazioni, malintesi e capziose ambiguità alimentate dal contesto discorsivo in cui ci si trova immersi.
Se risulta infatti incontrovertibile il carattere precipuamente liberista del macrocosmo socio-economico dove conduciamo le nostre esistenze, dobbiamo altresì possedere la lucidità di affermare che tale sistema poggia le proprie fondamenta sulla pietra angolare della proprietà privata e del commercio in ottica concorrenziale.
Quest’ultimo definisce gli attori di ogni specifico settore del mercato per l’appunto concorrenti, i quali, per emergere e consolidare la propria posizione, avranno l’obbligo di imporsi sugli omologhi meno competitivi. Per farlo occorre appaiare la qualità di un prodotto a un prezzo al dettaglio accessibile, il tutto commisurato a un target prescelto.
Ma la merce non si vende da sola, dunque il produttore sceglie di conferire una voce alle proprie creature, tramite la quale esse si narrano, autocelebrandosi, dinnanzi a una platea.
Da qui il senso inconfutabile della pubblicità: pura narrazione affabulatoria della merce rivolta all’uomo e al suo potere d’acquisto.
L’ovvia, nonché brutalmente scarna, ricostruzione del paradigma capitalista si ferma qui affinché si metta a fuoco quest’ultimo aspetto, in quanto decisivo.
Se è vero che la sfera economica avvolge quasi completamente il soggetto, egli non potrà sottrarsi al confronto col messaggio pubblicitario, cioè con una particolare forma di comunicazione, performativa, erotica ed assertiva, progettata per sedurre e convincere.
Anche a costo di deformare la veridicità di un fatto quando questo mette a repentaglio la reputazione del prodotto, contravvenendo così alla lezione heidegerriana.
Bollini verdi e fatturati
Il settore green, che comprende un eterogeneo catalogo di manufatti e servizi, è generalmente in crescita da diversi anni ormai, nonostante le battute di arresto di alcuni settori, dovute alle fluttuazioni sistemiche dei mercati e alle contingenze storiche (vedi il calo di cinque punti registrato per le rinnovabili in Italia a causa di leggi sbagliate e rincari).
Ciò comporta un sempre maggior interesse da parte delle aziende nell’investire sullo sviluppo di strategie produttive rispettose dell’ambiente. Interesse tramutatosi ben presto in greenwashing, ovvero la strategia tramite la quale imprese, organizzazioni e istituzioni politiche si raccontano a potenziali consumatori ed elettori come paladini della sostenibilità ambientale, indossando i panni dei buon samaritani a impatto zero.
Un maquillage spesso beffardo e inattendibile, studiato a tavolino per incantare clienti sempre più posseduti dalla mistica verde, e questo nonostante l’entrata in vigore, nel 2014, di un nuovo importante articolo – il numero 12, “Tutela ambientale” – del Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale, orientato al controllo dei “green claim”, ovvero dei messaggi pubblicitari che contengono rivendicazioni ambientali.
Fra tutti i comparti, quello alimentare garantisce ritorni molto succulenti, così la certificazione bio, affissa sul succo di frutta o sui biscotti, diventa imprescindibile per il consumatore attento, la cui “coscienza alimentare” può trasformarsi però in un concetto tanto onnicomprensivo quanto labile, figlio di una vaga suggestione salutista, impossibilitata a discernere il vero dal falso.
Cattive coscienze
Pensare di arginare la deriva ambientale sostituendo i derivati di soya agli hamburger agli estrogeni fa comodo a tanti. Confondere le sorti del nostro intestino con quelle degli ecosistemi però, è un’illusione accomodante.
Consumare verze a chilometro zero assume un senso solo decidendo di rivolgere lo sguardo alla spinosa complessità dell’insieme: quanto tempo dedica il consumatore consapevole all’acidificazione delle piogge e alle sue conseguenze? Lo scandalo del glifosato è destinato a restare una condivisione coraggiosa sui social network? Gli environmental bonds sono strumenti davvero efficaci?
Finché non trasformeremo il nostro paradigma esistenziale dalle fondamenta, cessando di riporre fiducia in una ideologia economica votata per costituzione alla legge dei fatturati, e dunque disinteressata a qualunque forma di progresso incapace di maturare utili, nessuna inversione di tendenza radicale potrà verificarsi.
Affidare il new deal ecologico al senso di colpa del privato significa cullare le utopie di rinnovamento fra le braccia di un blando palliativo molto ben confezionato.
Basti pensare al responsible care, un programma avviato dall’industria chimica canadese in seguito alla tragedia avvenuta a Bhopal, in India, che costò la vita a oltre 2500 persone (e seri danni fisici ad altri 200.000 individui). Questo incidente, forse il più grave tra quelli di natura industriale, fu originato da una fuga di gas dai depositi della Union Carbide.
Ai chimici canadesi si unirono, dopo qualche anno, quelli statunitensi e quelli britannici.
L’impegno consisteva, oltre che nel migliorare la sicurezza e nel ridurre i danni ambientali, nel rendere noti tutti i progressi realizzati dall’industria chimica, anche sul versante tecnologico e della ricerca.
E’ evidente che una delle principali leve è stata rappresentata dal desiderio di riconquistare la fiducia da parte del pubblico e dei mercati, almeno fino alla prossima catastrofe.
Riappropriarsi dell’inossidabile proprietà di disvelamento (aletheia) del linguaggio nei confronti dell’ingannevole foresta nera di slogan e brand a cui si riduce oggi la nostra quotidianità, dev’essere il primo passo di un modello comunicativo della sostenibilità pubblica, cioè svincolata dal bieco interesse economico.
Davide Albanese